STORIE ANFIBIE

 

Una rubrica di racconti personali sulla transizione dall'accademia all'impresa, per sfatare il mito che il PhD sia un pesce buono solo per nuotare nell'habitat universitario: i dottori di ricerca sono anfibi e possono respirare fuori, sulla terraferma del mondo aziendale, proprio come respiravano dentro le acque della ricerca.

 

 

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03
Gennaio

Storie Anfibie

GABRIELLA DELLINO | Matematica

03 Gennaio 2023

Project Manager

Dopo aver essersi laureata in Ingegneria Informatica al Politecnico di Bari, Gabriella inizia un dottorato di ricerca in Matematica, conseguito nel 2009, dopo un anno trascorso come visiting student all’Università di Tilburg, nei Paesi Bassi. Da lì, inizia a viaggiare per l’Italia portando avanti le proprie ricerche su algoritmi di ottimizzazione e gestione dell’incertezza in diversi contesti applicativi (dalla sanità, alla manifattura, all’energia). Nel 2014 rientra a Bari, sua città natale, iniziando a lavorare all’Istituto per le Applicazioni del Calcolo del CNR con un progetto di ricerca sulla logistica dei prodotti alimentari freschi.
Nel 2016 inizia a lavorare come project manager presso Tecnopolis, il parco scientifico e tecnologico dell’Università degli Studi di Bari, la cui mission è quella di valorizzare il trasferimento tecnologico, anche attraverso l’incubazione di nuove imprese e spin-off universitari, e la collaborazione con università e imprese a livello locale, nazionale e internazionale. Da allora continua il suo percorso di crescita professionale arrivando a conseguire la certificazione internazionale di Project Management Professional (PMP®).

 

Perché il dottorato e come è stato?

Sin da quando ho iniziato a lavorare alla mia tesi di laurea ero affascinata dal mondo della ricerca, per cui iscrivermi al dottorato è stata una scelta del tutto naturale. Mi piaceva l’idea di poter fare la differenza, sviluppando metodologie e algoritmi in grado di risolvere problemi anche complessi ma con un ampio potenziale applicativo. Come ingegnere avrei avuto difficoltà a studiare problemi del tutto astratti e ho avuto la fortuna di fare sempre ricerca applicata, con applicazioni in tanti contesti diversi.
Era tutto una scoperta: le summer school, la scrittura di articoli, le richieste di finanziamento, i viaggi per partecipare a congressi scientifici e presentare i miei lavori… Ognuna di queste occasioni era fonte di crescita e di confronto con colleghi e ricercatori, non solo del mio gruppo di ricerca ma anche di altre istituzioni; in particolare trovavo molto stimolanti i periodi che potevo trascorrere all’estero, con l’esperienza olandese in primis ma anche con i numerosi viaggi negli Stati Uniti.


Perché hai lasciato l'accademia?

La si potrebbe raccontare in tanti modi, ma non direi che sia stata una scelta a priori: piuttosto, è stata un’opportunità che si è aperta e che ho voluto cogliere. Mentre l’ultimo assegno di ricerca di cui ero titolare volgeva al termine, ho trovato un bando per la costituzione di un Grant Office, che avrebbe avuto il compito di supportare i gruppi di ricerca dell’università nella individuazione di bandi di finanziamento e nella redazione di proposte progettuali.
Ero molto intrigata da questa sfida, perché nel mio percorso accademico avevo più volte notato l’importanza di affiancare la qualità della ricerca a una efficiente gestione tanto della proposta progettuale quanto del progetto eventualmente finanziato. Questo aspetto, nella mia esperienza, non era adeguatamente curato nell’accademia: i ricercatori faticavano a occuparsi di entrambi gli aspetti e spesso il personale amministrativo risultava già oberato dall’attività ordinaria per potersi dedicare anche alla gestione dei progetti, al di là della gestione finanziaria dei fondi di ricerca. Con quella posizione avrei avuto la possibilità di contribuire a colmare almeno in parte quel gap che avevo individuato nel corso della mia esperienza accademica.
Ho partecipato al bando e sono stata selezionata: è stato l’inizio di una nuova avventura!

Com'è andata la fase di transizione?

Direi che la transizione è stata decisamente smooth. Nonostante stessi entrando a far parte di un contesto lavorativo completamente nuovo, ero affascinata dalla sfida di mostrare il mio valore anche al di fuori del mondo accademico, che era diventato per me estremamente familiare.
Non avevo la percezione di essere un pesce fuor d’acqua; anzi, mi vedevo competente e mi sentivo a mio agio nello svolgere i compiti richiesti dalla posizione che ricoprivo. Mi accorgevo di poter contribuire con facilità e dimestichezza alla redazione di proposte progettuali, poiché ero pienamente in grado di ricostruire lo stato dell’arte e di posizionare il contributo innovativo della proposta all’interno del contesto internazionale.
La mia familiarità con il mondo accademico mi consentiva di cogliere la prospettiva dei ricercatori con cui collaboravo e di trovare il modo più appropriato per inquadrare il contributo della proposta progettuale all’interno del contesto del bando di finanziamento, coniugando – ove richiesto – l’impatto strettamente scientifico con quello sulla collettività.


Com'è la giornata tipo nel tuo lavoro di oggi e a chi lo consiglieresti?

Non è facile definire una giornata tipo, perché dipende molto dall’attività che svolgo in quel momento. Sicuramente è un lavoro fatto di relazioni, di interazioni continue e di comunicazione, in cui passo tanto tempo al computer o in meeting (siano essi telefonici, virtuali o riunioni in presenza). Ad esempio, se sto lavorando alla presentazione di una proposta progettuale per un bando di finanziamento, passerò del tempo a studiare il bando, a predisporre la documentazione richiesta per l’application e ci saranno molti scambi con i partner per definire insieme le attività, il ruolo e il contributo di ciascuno, predisporre il budget e scrivere la proposta, fino alla submission. Se sono prossima a dover presentare la rendicontazione di un progetto in corso, le mie giornate sono per lo più intrise di carte, ricevute, fatture, timesheet e documentazione da verificare, riorganizzare e caricare online sulla piattaforma di rendicontazione del programma.
Non è comunque un lavoro in cui sto tutto il tempo in ufficio: ci sono infatti i meeting di progetto, gli eventi di disseminazione da organizzare, i workshop informativi sui nuovi programmi di finanziamento… tutte occasioni che mi portano ad andare un po’ in giro, sia a livello locale/regionale, ma anche all’estero.
Consiglierei questo lavoro a chi ama la precisione, la gestione dei tempi e delle risorse, non ha difficoltà a lavorare sotto pressione e trova stimolante passare da un contesto applicativo all’altro.


Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?

Durante il dottorato e nelle successive esperienze accademiche ho partecipato alla redazione di numerosi progetti di ricerca per bandi di finanziamento nazionali e internazionali. Questo impegno mi ha consentito di sviluppare competenze sempre più ampie nell’ambito del project management, rafforzate ulteriormente dalla specializzazione del mio dottorato in quel settore della matematica che va sotto il nome di Ricerca Operativa, che si occupa di sviluppare modelli matematici e metodi per la risoluzione di problemi decisionali, come l’ottimizzazione di risorse, la pianificazione e la schedulazione di attività – tutti aspetti fondamentali anche per u'adeguata pianificazione e gestione di progetti di ricerca.
Ci sono poi almeno altri due aspetti che secondo me rischiano di essere sottovalutati e che, invece, sono competenze non da poco che si acquisiscono durante il dottorato: uno è la capacità di studiare le fonti bibliografiche, di condurre una ricerca sullo stato dell’arte in un determinato tema o settore, di riconoscere quali studi sono validi e robusti da un punto di vista scientifico e quali necessiterebbero di maggiore approfondimento. Quando devi preparare una proposta progettuale è fondamentale capire dove ti collochi rispetto a quello che già è stato fatto, per chiarire ai revisori in che modo la tua proposta può fare la differenza e perché merita di essere finanziata. L’altro aspetto riguarda la capacità di parlare in pubblico, anche in inglese: dalla presentazione di un poster agli interventi ai convegni, pian piano acquisisci sempre maggiore confidenza e fluidità, che nel lavoro di gestione di progetti finanziati in ambito europeo aiuta molto.
Ora mi viene in mente che ce n’è anche un altro, ed è la capacità di lavorare sotto pressione: nella mia esperienza accademica c’erano spesso deadline da rispettare e non è banale saperle gestire mantenendo la giusta concentrazione e senza andare in tilt, sicuramente importantissimo anche nel lavoro come project manager.


Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?

Assolutamente no: tutto il percorso accademico che ho seguito – dottorato in primis – mi ha dato tanto e sono convinta che non sarei quella che sono adesso se avessi seguito un percorso diverso.
Ogni tanto mi guardo indietro e penso a tutto l’investimento fatto nella ricerca; mi chiedo se ne sia valsa la pena e il bilancio finisce sempre per essere positivo. Magari qualche nottata davanti al computer in prossimità di una scadenza me la sarei risparmiata, ma (anche se con minore frequenza) può capitare anche adesso. Quello che forse fa la differenza è aver imparato a gestire anche questi momenti.


Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?

Il mio consiglio è quello di mantenersi aperti alle opportunità che possono venire dalla “vita reale”. Non abbiate paura di lanciarvi in nuove avventure al di fuori dell’accademia.
Ho sempre pensato che non fossi fatta per lavorare in azienda e non immaginavo che potessero esserci lavori e figure professionali in cui poter mettere a frutto in maniera così appropriata quel prezioso bagaglio di competenze che ho costruito negli anni trascorsi nell’accademia e che avevo il terrore potessero andare perduti.
La sfida che vi invito a raccogliere è quella di dimostrare al mondo che un PhD non è un marziano che vive in un mondo tutto suo, fatto di formule, di ipotesi, di ricerche e studi che non hanno altro sbocco al di fuori dell’accademia. Tutto quello che avete imparato può fare la differenza: a voi l’onere ma anche l’onore di darne prova.