Perché il dottorato e come è stato?
Il primo giorno in aula, in università, la prima lezione di citologia e istologia: un viaggio nell’immensamente piccolo che non avevo mai fatto prima. Il privilegio di esplorare i dettagli di come sono fatti i nostri tessuti. Unire la passione di bambina per la biologia marina e quella più adulta per la conoscenza di come funziona un organismo. La magia di una giornata in laboratorio dove tutto funziona come vorresti, o di una giornata sfortunata che ti pone la sfida di cambiare ipotesi, rifare un esperimento o trasformarlo completamente e tentare una strada nuova. Con la tesi di laurea avevo avuto un assaggio di tutto ciò. Ne ero totalmente rapita. Il dottorato mi permetteva di averne ancora e ancora. L’ho scelto senza sapere dove mi avrebbe portata, ma con la certezza che fosse il modo migliore per continuare ad avere gli occhi che brillavano di curiosità.
È stato... be'... faticoso, ma una grande soddisfazione. Facevo parte di un gruppo di ricerca dove eravamo tutti giovani, ci aiutavamo a vicenda, ma dovevamo camminare con le nostre gambe. Le giornate comprendevano la preparazione di campioni delicati, l’utilizzo di microscopi elettronici, l’analisi dei dati, la scrittura di articoli, i viaggi per i congressi, ma anche ore a lavare acquari, a fare soluzioni e a sistemare vetreria. Giornate piene di una bella stanchezza.
Perché hai lasciato l'accademia?
Durante il dottorato inizi a dover pensare da solo, ma hai ancora poche responsabilità e molte prospettive. Ottenuto il PhD ho iniziato con i post-doc, ho cominciato a scrivere progetti di ricerca nel tentativo di avere uno stipendio e dei soldi per i materiali e i macchinari. Sapevo che avrei avuto sempre il computer con me in vacanza. Difficile, ma faceva parte del gioco.
Durante il PhD realizzi che la vita di un ricercatore di successo è spesso nomade per un bel po’ di anni. Con il primo post-doc inizi a renderti conto che potrai fare ricerca in prima linea ancora per un po’, ma che una vita in accademia ti vedrà assorbito da mille attività collaterali e manageriali. E poi arrivi al punto in cui decidi di accorgerti dell’elefante nella stanza: l’università non può assorbire tutti. Solo alcuni degli ottimi ricercatori presenti nei laboratori resteranno effettivamente in accademia. Così, inizi a guardarti intorno. E io, devo ammettere, non sapevo bene dove guardare...
Com'è andata la fase di transizione?
Nel 2007, quando ho finito il PhD, nessuno ancora parlava di competenze trasversali e di come un dottorando potesse avere una vita al di fuori dell’università. Non ero preparata. Quando ho iniziato a cercare al di fuori dell’accademia, era la prima volta che valutavo le alternative. È stato un po’ uno shock. E io ho sempre lavorato mentre studiavo, quindi ero abituata ad affrontare mondi e modi lavorativi diversi. Quello che mi mancava era una direzione verso cui andare. Era la prima volta che mi chiedevo cosa volessi fare se non avessi fatto la ricercatrice.
Ho mandato CV ovunque, senza sapere bene a chi mi stessi proponendo, né tanto meno come si scrivesse un CV. Ho avuto la fortuna di trovare un lavoro che mi ha permesso di rimanere a contatto con l’accademia e con la ricerca tutti i giorni. Che mi dà la possibilità di aiutare le idee a trovare un supporto perché possano essere esplorate e di aiutare i giovani ricercatori a diventare indipendenti. Un lavoro che dà delle soddisfazioni.
Fuori dai ruoli accademici però il lavoro è una cosa diversa. Le ore sono meno flessibili, i compiti assegnati e gli obiettivi da raggiungere sono decisi spesso a priori, il tempo dedicato a quello che veramente ti appassiona è subordinato a quello dedicato a portare a termine quel che va fatto. C’è meno spazio per la creatività, ma forse proprio per questo ti costringe a trovare un modo per inserirla comunque e ti aiuta a capire cosa veramente ti piace.
Com'è la giornata tipo nel tuo lavoro di oggi e a chi lo consiglieresti?
La mia giornata è fatta sostanzialmente di e-mail... che detto così sembra terribile... ma in realtà va immaginata come un processo in cui si crea un qualcosa pezzo per pezzo grazie a uno scambio continuo di informazioni. Inizio dalla mia e-mail personale, dove arrivano tutte le newsletter degli interlocutori più importanti (Commissione Europea, European Citizen Science Association, European Research Council e così via). Questo passaggio serve per avere un’idea del contesto più ampio in cui ci si muove e poi poter tornare al particolare del singolo progetto e viceversa. Saper leggere un documento di policy è essenziale tanto quanto saper comprendere il contesto scientifico del progetto che si sta seguendo.
Poi si passa alle e-mail di chi scrive all’ufficio, che può essere un dottorando quanto un professore ordinario, un rappresentante della governance o di un ente finanziatore. E si organizza il lavoro in base alle deadline. È un lavoro sempre sulle emergenze. Lavoro molto con medici impegnati su più fronti e la prontezza di una risposta può (non sempre, ma spesso) significare che un’idea di ricerca verrà presentata o meno nel modo richiesto da un potenziale finanziatore. Su molti progetti si lavora solo su documenti amministrativi e budget. Su una ristretta cerchia ci si confronta con chi propone l’idea per capire se risponda alle caratteristiche del bando. Su pochi, ma preziosi progetti, si lavora da quando l’idea prende vita fino alla chiusura del bando. Si discute l’idea, si aiuta a trovare i partner più appropriati per realizzarla, si aiuta lo scienziato a presentare il proprio CV al meglio, si leggono, correggono e ricorreggono le bozze. Mesi di lavoro e il finanziamento non è mai assicurato. Ma sono le regole del gioco e vale sempre la pena. Per dieci progetti scartati, ce ne sarà uno che verrà finanziato e creerà qualcosa di importante. E in quel qualcosa ci sarà un mio pezzettino.
Per finire ci sono gli eventi e i workshop di formazione. Dare degli strumenti ai giovani scienziati per muoversi nel mondo dei finanziamenti alla ricerca trovo sia fondamentale. A me è mancato questo tipo di servizio che mi avrebbe aiutata a capire come muovermi e ad avere più sicurezza. È una sfida trovare un modo sempre più coinvolgente ed efficace per spiegare come si scrive un progetto di ricerca: dall’eccellenza scientifica non si può prescindere, ma anche l’occhio di chi legge (e valuta) vuole la sua parte.
Consiglio questo lavoro a chi ha la capacità di lavorare sotto pressione (o vuole imparare a farlo), a chi sa tener testa alle personalità forti senza perdere la pazienza (o vuole imparare a farlo), a chi crede nel lavoro degli scienziati e a chi ama profondamente la ricerca, che è un mondo molto più ampio, affascinante e variegato di quanto si possa immaginare quando già si lavora a qualcosa che si adora in laboratorio.
Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?
Il metodo scientifico, la precisione e l’attenzione ai dettagli, la capacità di parlare in pubblico nonostante un’innata paura. La voglia di conoscere cose nuove e di capire come funzionano. La capacità di guardare da un’altra prospettiva quando qualcosa non procede secondo i piani. Sapere far fronte agli insuccessi. Saper osservare. Saper analizzare i fatti. Trarre conclusioni e renderle disponibili agli altri. Lavorare in team. Capire che, in un progetto condiviso, ogni partner ha le sue priorità e che si può trovare un modo per metterle d’accordo. Avere uno scambio proficuo con chi ti sta di fronte, con chi ne sa meno di te e con chi ne sa di più. Non aver paura di difendere un’idea quando i dati la sostengono. Chiedere una mano a un collega quando serve. Sapersi arrangiare con quello che si ha (e questo è vero soprattutto per i lab italiani dove le risorse sono scarse). Avere sempre uno sguardo vivo e attento. Avere pronta una nuova domanda quando trovi una risposta attendibile a quella precedente.
Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?
Il dottorato è una grande avventura e un grande privilegio. Lavorare come accademico ti dà la libertà di poter pensare a un’idea e di esplorarla. La libertà di soddisfare la tua curiosità, di spingere ogni giorno un po’ più in là i confini della conoscenza. La liberà di scegliere come impegnare le tue risorse cerebrali. Impagabile e difficile da trovare in altri contesti. Quindi sono felice di aver concesso a me stessa questa possibilità e di averla portata a termine.
Mi pento di aver chiuso la porta all’accademia, tanto quanto mi era stata chiusa dall’accademia stessa. Di aver dato ascolto a quella disillusione che prende chi si scontra più e più volte con le difficoltà di essere un ricercatore. E di aver scelto un’alternativa senza valutare con attenzione tutte le strade possibili. Mi è andata bene perchè fuori dall’accademia ho trovato un ambiente lavorativo fatto di persone di alto livello, competenti e attente tanto al lavoro quanto alla personalità di ognuno. E ora riconosco le mie competenze professionali molto più di quanto lo facessi in accademia. Competenze che vengono apprezzate e richieste. Ho trovato una strada da percorrere.
Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?
Chiunque abbia fatto un dottorato ha interiorizzato il metodo scientifico. E sa che sbagliare strada è spiacevole, ma non è una condanna. Anzi a volte ti porta a risultati inattesi. Usate il metodo scientifico anche per la fase di transizione. Se state pensando di lasciare l’accademia è perchè ha smesso di soddisfare appieno le vostre esigenze e aspettative. Pensate a cosa vi ha deluso e a cosa vi ha entusiasmato. Esaminate quali sono i vostri talenti con sincerità. Valutate le alternative confrontandovi con le persone che le hanno fatte diventare la loro scelta. Pensate a dove vi piacerebbe arrivare nell’arco di uno, cinque, dieci anni. E, se non lo sapete, datevi il tempo di capirlo. Provate. Un lavoro nuovo potrà essere il nuovo lavoro dei vostri sogni o potrà fare da ponte. La scelta perfetta è inesistente. Una scelta ponderata e consapevole è un ottimo inizio!