Perché il dottorato e come è stato?
Fino alla fine delle superiori non ho avuto un bel rapporto con lo studio. Mi applicavo poco, quanto bastava per arrivare alla fine dell’anno. Complessivamente del periodo non ho un bel ricordo, ma quello più vivido e positivo è di una frase letta su un diario dell’epoca: “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta” (Socrate); allora la archiviai tra le frasi che meritano di essere ricordate, ma ignoravo quanto mi avrebbe accompagnato in seguito.
Mi piacevano l’informatica e le nuove tecnologie, ma – se mai avessi fatto l’università – avrei stentato a vedermi alle prese con discipline proprie delle scienze matematiche. Giurisprudenza fu allora una scelta quasi dovuta, cercando un percorso che aprisse molte porte professionali.
Una volta diventato studente universitario, grazie anche ad alcuni docenti particolarmente accorti, scoprii il fascino di un diritto quale non “mero insieme di regole scritte” ma fenomeno sociale. In quel frangente compresi anche che avrei potuto seguire i miei interessi (allora, le nuove tecnologie) coniugandoli con le materie oggetto di studio, peraltro avviandomi a percorsi professionali e di ricerca fortemente in espansione.
Mi scoprii naturalmente incline all’approfondimento e al pensiero speculativo, e il dottorato rappresentò uno sbocco quasi naturale. Proseguii pertanto gli studi nella mia città: guardai anche altrove, ma il buon livello dell’offerta formativa a Genova non giustificava un trasferimento.
Il dottorato è un’esperienza che rifarei, ma di cui ho un ricordo dolce e amaro. Il primo anno è volato, diviso anche con la pratica presso uno studio legale: lì i punti interrogativi che mi ruotavano intorno erano molteplici, non avevo un tema di ricerca che sentivo mio e correvo da una parte all’altra per seguire incontri, lezioni e seminari, assistere agli esami, seguire tesisti per poi passare a un’udienza in tribunale e a un atto che doveva essere depositato entro sera.
Col passare del tempo ho preso più dimestichezza, nonché confidenza con i colleghi che nel tempo sono diventati tra i miei amici più cari (uno dei quali mi ha fatto da testimone al matrimonio). Ecco allora che soprattutto il secondo anno, con le idee un po’ più chiare, si è rivelato un proficuo periodo di studio e di ricerca, che mi ha consentito di fare esperienze soprattutto in giro per l’Italia, e creare una rete di contatti che ancora oggi coltivo. È stato anche l’anno in cui abbiamo fondato la sede genovese dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia (ADI). Già in questo periodo coltivavo la consapevolezza che l’accademia non sarebbe stata la mia vita, ma ciononostante la passione per quello che stavo facendo mi ha spinto ad andare avanti e a tacitare in fretta quelle voci, nella mia testa, che mi suggerivano di lasciar perdere. Avrei benissimo potuto fare altro, di totalmente diverso – mi dicevano – e allora perché continuare? Sono contento di non aver dato loro retta.
Il terzo e il quarto anno (ho avuto bisogno di un po’ più tempo del previsto per terminare la mia tesi) sono stati sempre in salita: la redazione della tesi si è concentrata forse un po’ troppo nell’ultimo periodo, ma ormai mi sentivo lanciato e intravedevo il traguardo. È stato allora che ho scoperto di avere maturato energie e risorse che neppure credevo.
Perché hai lasciato l'accademia?
Ho lasciato l’accademia perché, come avviene in molti casi, realizzai piuttosto in fretta che le possibilità di proseguire il percorso intrapreso erano scarse. A maggior ragione laddove avessi voluto continuarlo nella mia alma mater, o comunque riducendo al minimo il periodo di precariato: poco prima di conseguire il titolo di dottore di ricerca sono convolato a nozze e allora si è fatta più pressante la necessità di un adeguato bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa. Inoltre il percorso di dottorato è stato fatto insieme a colleghi altrettanto valenti, e ad ogni modo i ruoli della ricerca scientifica non avrebbero potuto assorbirci tutti.
Acquisii questa consapevolezza piuttosto precocemente, pertanto ebbi qualche tempo per interrogarmi sul futuro. Ero certo che non avrei svolto alcuna delle professioni canoniche di chi ha fatto giurisprudenza (avvocatura, magistratura, notariato), e al tempo stesso iniziai a maturare una solida vocazione burocratica. Complici anche un paio di esperienze presso gli uffici del Senato della Repubblica, ho realizzato che in grandi amministrazioni avrei potuto essere parte della realizzazione di quel diritto noto come law in action, che fino ad allora avevo conosciuto solo come law on the book.
Ad ogni modo, anche laddove avessi nutrito qualche aspettativa di restare in accademia, mi si presentò l’occasione di occuparmi di appalti pubblici (materia che conoscevo, ma solo in quanto teorico del diritto). Lì il merito va all’allora manager e al dirigente (avv. Francesco Rapisarda e ing. Enzo Gelati) del procurement directorate dell'IIT, i quali hanno accettato l’azzardo di assumere qualcuno fino ad allora confinato nell’ambiente accademico (e come tale talvolta giudicato troppo “astratto” per il concreto spiegarsi dell’azione amministrativa).
Com'è andata la fase di transizione?
La transizione è stata piuttosto traumatica, non fosse altro perché è iniziata quando ancora stavo redigendo la tesi di dottorato. Così, dal trascorrere ampia parte del mio tempo sui libri e a lambiccarmi con i miei pensieri, sono passato a dedicare 40 ore settimanali a gestire procedure di appalto per un grande ente di ricerca. Per la tesi, che fortunatamente per la maggior parte era stata redatta, erano pertanto rimaste solo le sere e i week-end. Forse non sono mai stato così stanco in vita mia come allora, ma al tempo stesso ero stupito della lucidità del mio pensiero: ero stupito di quante energie e quante skill avessi maturato negli anni del dottorato, per poterle condensare in un periodo così breve.
Oltre a essere stata traumatica, è stata senz’altro dolorosa. Mi rendevo conto che mi stavo allontanando dal mondo che per anni avevo vissuto e amato. Probabilmente di cuore avrei fatto qualche tentativo per rimanere, ma razionalmente ero consapevole di quanto era stretta la porta che avevo davanti. A guardare indietro, sono convinto di aver fatto la scelta giusta.
In quel periodo, per l’appunto difficile, mi ha aiutato molto appassionarmi al lavoro che stavo svolgendo, nonché vederne i risultati. L’ambiente accademico è spesso competitivo, ma i feedback sulla propria attività spesso tardano a venire, e talvolta non sono ancorati ad aspetti esclusivamente connessi al merito. Invece, un approccio più aziendalistico e una gestione manageriale, che ha per sua natura maggiori scadenze e valutazioni, mi ha permesso di conoscermi meglio (e placare quella vocina nel cervello che molti di noi conoscono come “sindrome dell’impostore”). Se non potevo essere un ricercatore, ho scoperto che comunque potevo mantenere l’approccio e la forma mentis del ricercatore anche in un altro contesto lavorativo, cogliendo la sfida intellettuale dietro a ogni obiettivo da raggiungere.
La transizione è terminata, ironia della sorte, nel posto dov’è cominciata: adesso sono funzionario dell’ufficio privacy, anticorruzione e trasparenza presso l’Università di Genova, e dunque mi occupo di public compliance. Sono vicino alla ricerca scientifica che, seppure solo un poco, ho lasciato a malincuore. Tuttavia non la guardo con nostalgia. Credo fermamente nella dignità e nel valore delle amministrazioni o delle “burocrazie” (termine spesso abusato e bistrattato, ma che fa riferimento a compiti e funzioni strategiche, e spesso vitali per qualsiasi organizzazione), e sono contento di poter mettervi il mio bagaglio di studi e conoscenza al servizio.
Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?
L’oggetto della mia tesi è, inevitabilmente, di interesse quasi esclusivamente accademico. Tuttavia nel corso di dottorato ho avuto modo di specializzarmi anche sulle tecniche di redazione degli atti normativi e amministrativi, e questa è una competenza strategica in qualsiasi amministrazione (pubblica o privata) che i corsi universitari molto raramente insegnano.
È anche vero che il diritto costituzionale è spesso sotto i riflettori (si pensi all’imminente referendum per la riduzione del numero dei parlamentari, o anche alle discussioni in ordine alla legittimità delle misure per contrastare la pandemia), quindi conservo e esercito volentieri una “lente” qualificata attraverso cui leggere la realtà che ci circonda.
Ho poi fatto quello che la stragrande maggioranza dei dottorandi fa: tenere lezioni, seguire tesisti, redigere articoli e collaborare alla redazione di contenuti più strutturati. Questo ha significato non aver paura di parlare in pubblico, anche di fronte a un pubblico ampio e diversificato, sviluppare la capacità di sintesi, sostenere elevati livelli di stress, coordinare piccoli gruppi, inquadrare, impostare e solo dopo risolvere i problemi. Tutti requisiti che chi lavora in amministrazione con un adeguato livello di autonomia è bene che possieda.
Per questo una parte del merito dev’essere data a Find Your Doctor, di cui ho avuto modo di partecipare ai webinar sulle soft skill. Sono sempre stato in grado di sfruttare le potenzialità acquisite nel corso del dottorato, ma lo facevo in maniera del tutto inconsapevole. Ritenevo fossero alla stregua di talenti naturali e ho realizzato solo successivamente che erano il frutto dei miei anni di dottorato. Imparando a conoscerli e chiamandoli col loro nome ho avuto modo di offrirli sul mercato del lavoro, metterli a frutto e potenziarli ulteriormente.
Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?
Come la stragrande maggioranza di chi si laurea in giurisprudenza, nel primo anno di dottorato ho svolto la pratica forense. Mi sono sentito in dovere di portarla a termine (pur senza dare l’esame da avvocato) sebbene fossi consapevole di non essere interessato a esercitare la professione. Tornassi indietro, non lo rifarei: ritengo abbia sottratto tempo al dottorato senza fornire un grande valore aggiunto.
Un professore di economia politica oramai in pensione, alla prima lezione del primo anno, ci disse che fuori dall’università c’era un cartello con scritto “arrangiatevi”, per spiegarci come molto era lasciato all’autonomia dei singoli studenti. Questo è ancora più vero quando gli studenti sono dottorandi: capita che vi siano dei periodi in cui si ha l’impressione di essere lasciati soli a sé stessi. Credo di aver realizzato troppo tardi che allo scoramento avrei dovuto rispondere con un atteggiamento proattivo. Se potessi tornare indietro impiegherei meglio quei periodi, facendo esperienze di studio e ricerca in Italia e all’estero, partecipando a call for paper e approfondendo le linee di ricerca che ritengo più interessanti.
Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?
La transizione è un qualcosa che spesso fa male, perché comunque credo che di rado il dottorato rappresenti una “seconda scelta”: è la prima, e scegliere di fare qualcosa di diverso vuol dire in una certa qual misura rinunciare a qualcosa che magari si è desiderato con tutto sé stesso. Ma il dottorato è una realtà tanto bella quanto assorbente, che ti rende cieco alle possibilità che ti stanno intorno. Ci vuole un atto di volontà per realizzare quello che il mercato può offrire a un dottore di ricerca (e che pertanto è diverso da tutto ciò che si può aver cercato prima).
Se dovessi rispondere alla domanda se un dottorato può utilmente essere speso nell’amministrazione, sia pubblica che privata, la risposta è affermativa.
In un’amministrazione privata non necessariamente ci sarà una valutazione per titoli o un vero proprio concorso, potrebbe esserci anche un assessment o un semplici colloquio. Qui la conoscenza della materia molto spesso è importante tanto quanto le soft skill, le quali potranno fare la differenza (si pensi anche solo al vantaggio derivante dalla risolutezza con cui un dottore di ricerca può parlare di fronte a una decina di persone, esaminatori compresi). In un’amministrazione pubblica il dottorato è uno dei possibili requisiti per accedere, mediante concorso, a ruoli manageriali e dirigenziali (ad esempio è titolo per entrare nella Scuola Nazionale dell’Amministrazione), mentre per altre posizioni costituisce titolo valutabile ai fini del punteggio.
Al di là di questi aspetti più propriamente normativi, vorrei suggerire a chi dovrà affrontare un momento di transizione analogo al mio di guardare con interesse a quelli che sono gli apparati amministrativi, sia pubblici che privati. L’immagine che se ne ha è spesso di un ambiente vetusto e con mansioni ripetitive, ma la realtà è molto diversa. Ai livelli a cui può accedere un dottore di ricerca le sfide non mancano, e gli interlocutori sono spesso di altissimo livello.
Peraltro è anche in corso un vivace dibattito, portato avanti soprattutto dall’ADI, per la valorizzazione del titolo anche all’interno della Pubblica Amministrazione (risultati si sono ottenuti, con un vero e proprio obbligo normativo, in Liguria).
Ad ogni modo, una volta dentro, sia le competenze acquisite che le soft skill rappresenteranno una preziosa risorsa, capace facilmente di colmare il gap di esperienza professionale che si può avere con chi ha iniziato a lavorare subito dopo la laurea.
Un ultimo consiglio è quello di lasciare sempre uno spazio per le proprie passioni. Continuo a collaborare con la cattedra di diritto costituzionale e pubblico ancora su riviste scientifiche: anche se è fine a sé stesso e non mi porterà da nessuna parte, è il mio modo di omaggiare un bel periodo della mia vita, che ancora mi appassiona. Come diceva Socrate, “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.