Perché il dottorato e come è stato?
Sono nato a Udine e nella mia città di nascita ho frequentato il liceo scientifico tecnologico, all’epoca uno dei primi indirizzi tecnologici in ambito liceale. Ho sempre avuto passione per le materie scientifiche, ma ero il classico studente etichettato con “ha buone capacità, ma non si applica”. Un deludente voto post maturità sembrava precludermi ogni velleità per degli studi a lungo termine. Ammetto che se non fosse stato per i miei genitori, i quali mi consigliarono di non farmi influenzare dal voto, ma di credere in me stesso e perseguire i miei obiettivi, probabilmente oggi non avrei un percorso simile da raccontare.
Durante l’orientamento agli studi universitari fui affascinato dal corso di laurea in Scienze e Tecnologie Alimentari. Mi piaceva la proposta multidisciplinare del corso e la ritenevo utile per uno sbocco finale in azienda. Al termine della triennale colsi la palla al balzo e andai controcorrente rispetto ai miei compagni di corso: mi proposi per una tesi applicativa che maturasse attraverso un’esperienza attiva in azienda. Ai tempi mi dedicai alle applicazioni per food packaging (il medesimo ambito che svilupperò ulteriormente durante il dottorato), mentre per la successiva redazione della tesi di laurea magistrale spesi circa 7 mesi all’estero, presso l’ENSBANA (oggi AgroSup) di Dijon, in Francia. Venni spinto verso l’estero dal mio relatore, prof. Sensidoni, il quale sosteneva che solo attraverso le scelte più complesse e di “responsabilità” avrei potuto costruire la mia professionalità futura.
Furono 7 mesi fantastici: passai dalle difficoltà iniziali (nuova lingua, diverse abitudini, difficoltà di adattamento, lontananza dai miei affetti) a una sorta di aura continua. Ero alimentato dalla voglia di imparare, di mettermi in gioco, di aprirmi al mondo. Studiai gli effetti dell’idratazione su struttura e dinamiche della β-lactoglobulina, una proteina del latte conosciuta per la sua funzionalità e relazione con le allergie alimentari. Imparai il francese, scrissi la tesi in inglese e conobbi persone brillanti e competenti: ammiravo la loro umiltà e propensione al dialogo, pur essendo dei luminari nei loro settori. Emanavano una capacità innata nell’aiutarti a esprimere il tuo talento, sapendo motivarti con un semplice sorriso, una pacca o con un “bravò” alla francese. Dimostrai di saperci fare e mi proposero di continuare il percorso con un dottorato in Francia al termine degli studi.
Ammetto che tentennai, ma alla fine per tutta una serie di motivi decisi di rimettermi a disposizione dell’azienda in cui sviluppai la mia tesi triennale. Mi laureai e per 9 mesi cercai di sviluppare e perfezionare film innovativi per imballaggio alimentare. Era allettante l’idea di sfruttare la fotoattività del biossido di titanio per la salvaguardia degli alimenti. Da un lato mi piaceva comprendere a fondo le dinamiche che determinavano l’effetto fotocatalitico e la sua ottimizzazione in ambito alimentare, dall’altro intravedevo le molteplici potenzialità del biossido di titanio in svariati ambiti applicativi. Tuttavia, nel 2008, la normativa europea sugli imballaggi alimentari era ancora in via di sviluppo, per cui risultò necessario portare la sperimentazione e lo studio a livelli decisamente più elevati di quelli che avrebbe potuto garantirmi la sola bontà imprenditoriale di una piccola realtà friulana del settore.
Sapevo che di lì a poco ci sarebbe stato un nuovo bando di concorso per l'ammissione ai corsi di dottorato di ricerca e provai a condurre le necessità imprenditoriali sul medesimo binario delle opportunità accademiche. Feci centro e nel 2009 iniziai la mia avventura come dottorando in Scienze degli Alimenti, riuscendo ad avvicinare al progetto di ricerca altre realtà industriali italiane, alcune delle quali di levatura e nomea piuttosto importante.
Perché hai lasciato l'accademia?
Le motivazioni sono profonde e traggono in parte origine dalla complessità del soggetto di studio. Il biossido di titanio è un composto chimico particolare: presenta forme cristalline diverse che, assieme alla dimensione (nano o micro) del cristallo, influenzano le sue caratteristiche di fotoattività positivamente sfruttate in svariati settori, dal biomedico all’edilizia. In ambito alimentare, è annoverato come sostanza dual use, ovvero impiegabile sia come additivo negli alimenti che nella produzione degli imballaggi a loro dedicati. Per queste peculiarità, viene da anni monitorato dall’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) al fine di valutarne i limiti precauzionali nel suo impiego. Vista la dinamicità della tematica, il disegno sperimentale ha previsto la coesistenza nel medesimo progetto di dottorato di diversi dipartimenti (Tecnologie Chimiche e Scienze degli Alimenti), ognuno dei quali aveva un suo approccio alla problematica. E se far coesistere due dipartimenti intra-universitari è stato laborioso, ben più arduo è risultato allineare le diverse realtà industriali coinvolte, sia tra loro che nei confronti di un talvolta ingessato mondo accademico.
Adoravo il fatto di poter coordinare il lavoro, approfondire le tematiche con maggiori prospettive applicative e gestire un budget di ricerca. Tuttavia, con lo scorrere del tempo, mi trovai mio malgrado a dover dirimere tensioni sempre più crescenti. L’assillante necessità di “pubblicare” qualcosa si scontrava con le logiche competitive delle varie imprese coinvolte nel progetto di dottorato. Le mie convinzioni iniziali cominciarono a vacillare. Non percepivo più dentro di me quel naturale dinamismo focalizzato alla scoperta di nuovi metodi, opportunità o nuove soluzioni migliorative. Questa frustrazione portò a incrinare il mio rapporto con l’università e mai come durante il mio terzo anno di dottorato mi sentii veramente solo. In quell’anno mi tolsi comunque delle soddisfazioni (il mio lavoro venne valutato come il più meritevole nel workshop italiano sulle ricerche di dottorato in Scienze, Tecnologie e Biotecnologie Alimentari, tenutosi a Lodi nel 2011 e successivamente venne pubblicato su una rivista internazionale), ma queste non mitigarono la mia generale insoddisfazione. Ero divorato dai dubbi e cominciai a mettere in discussione tutte le mie scelte, persino i sacrifici fatti fino ad allora. Nel marzo 2012 conseguii il titolo di dottorato di ricerca quasi per inerzia. Non sentivo gioia, ma solo un misto tra paura e liberazione.
Avevo bisogno di nuovi stimoli, di evolvere. E come spesso è accaduto nella mia vita cominciai a lavorare su me stesso. Cosa volevo essere? Cosa mi aveva spinto in quel percorso? Cosa mi faceva sentire professionalmente vivo? Riempii un foglio A4 di risposte. Tutte avevano un sottile filo conduttore: mi sentivo davvero utile mettendo a disposizione delle aziende tutto quello che avevo imparato in quegli anni, potendo seguire una filiera dalla A alla Z. Basta limitazioni alle idee o alla visione complessiva di un progetto. Volevo fornire spunti, risolvere fattivamente problemi, condividere le mie competenze accresciute durante il dottorato. Sapevo che questa libertà intellettuale mi avrebbe permesso di esprimermi al massimo, nella speranza di poter far crescere attorno a me i talenti delle altre persone.
Com'è andata la fase di transizione?
Fu decisamente dura. Quando ti affacci alle più disparate realtà alimentari non sai veramente cosa potrai trovare. La grande-media azienda vive di processi, di ruoli, di procedure prestabilite. Ci sono tante persone che fanno parte di un meccanismo. E ogni piccolo “ingranaggio” deve eseguire il suo compito. La piccola azienda vive di passione imprenditoriale, le persone che vi lavorano fanno molte attività diverse perdendo a volte la loro vera dimensione professionale.
Però, quando entri in queste realtà e ti senti dire “mi dica quello che dovrei fare” oppure “questa è la sua postazione, buon lavoro”, è naturale che il timore di non essere all’altezza faccia capolino. Ti rendi conto di quanto possano mancarti i riferimenti che il mondo accademico sa fornire. Puoi uscirne in due modi: o ti fai prendere dal panico (ed è una via senza uscita) oppure usi il raziocinio.
Durante la mia fase di transizione ho imparato quanto sia fondamentale studiare le dinamiche che coinvolgono le persone in un ambiente lavorativo. Entrando in punta di piedi. Un dottore di ricerca, in un’azienda di piccole-medie dimensioni, viene spesso visto con diffidenza proprio perché il suo titolo di studio non è conosciuto a livello italiano. Vieni percepito come un anomalo mix tra un ricercatore non realizzato e un tecnico non specializzato. Pensare di adoperarsi da subito mettendo in discussione tutto quello che un’azienda ha fatto fino a quel momento solo perché in possesso di un titolo di studio importante, è un peccato di inesperienza che può costare caro.
Personalmente ritengo indispensabile che un dottore di ricerca si debba mettere a disposizione, partendo dal basso e sporcandosi pure le mani. Abbiamo un bagaglio molto vasto di competenze e di capacità nel gestire risorse, ma per renderlo fruibile dobbiamo capire il sistema in cui siamo coinvolti. Da quel momento verremo percepiti per le potenzialità che realmente abbiamo e la nostra figura accrescerà agli occhi degli altri in termini di empatia, credibilità e autorevolezza.
Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?
Lavorare nella ricerca ti insegna a essere organizzato, metodico e rigoroso. Non puoi sapere tutto, ma impari dove trovare risposte attendibili in modo rapido. Maturi la capacità osservativa, relazionale e comunicativa, avendo una mente aperta e rivolta al miglioramento continuo. Ciò è fondamentale per un PhD che si affaccia alla realtà industriale, soprattutto se di piccole-medie dimensioni. In tali ambiti è fondamentale riconoscere i potenziali “alleati”, cambiare il punto di vista delle persone che lavorano nel sistema e ridurre le cosiddette frasi “killer”.
Durante la mia professione mi è capitato molte volte di sentirmi dire “abbiamo sempre fatto così”, “questa cosa non funzionerà mai”, “ottima idea, ma non va bene per noi”. Ritengo che non ci sia nulla di più demotivante riassunto in così poche parole. Lo sforzo che spesso il percorso di dottorato ci porta a fare è azzerare queste frasi, cambiando il nostro punto di vista. Trasformando tutto come un’opportunità di miglioramento.
Anche nella mia attuale realtà lavorativa sto cercando di traslare questi concetti a tutti gli operatori coinvolti nel processo produttivo. Portando la responsabilità sempre più verso il basso a livello di gerarchia. Questo, a mio avviso, permette di costruire un sistema organizzato e consapevole di rischi e necessità, ove i talenti possano naturalmente emergere portando a elevare complessivamente la qualità del sistema. È un pò come quando mi veniva affidata la supervisione del lavoro di tesisti: bisognava gestire le crisi, imporsi quando necessario, ma anche ascoltare i loro bisogni nella consapevolezza che l’altrui crescita è stata (e sarà) in parte una mia responsabilità.
Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?
Non mi sono mai pentito delle scelte che ho fatto nel mio percorso, semplicemente perché prese in piena autonomia e coscienza. Non posso negare che ci sono stati momenti duri, di smarrimento, persino umilianti. Ho commesso molti errori, ho fatto anche brutte figure. Ho sacrificato rapporti personali e ho versato lacrime. Ma al tempo stesso sono consapevole che tutto ciò mi ha aiutato a costruirmi il presente e mi sosterrà nel futuro.
La vita è costellata di piani sognati o immaginati che possono mutare in funzione delle situazioni che ci circondano. Questo ci fa soffrire e ci spaventa. Ma se saremo in grado di cambiare il punto di vista sulle cose, tutto sarà meno assillante e ci permetterà di aggiustare il tiro avendo una maggiore consapevolezza a proposito dei nostri limiti e obiettivi.
Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?
Piuttosto che proporre consigli, mi permetto di fornire alcuni spunti di riflessione. Ognuno ha la sua storia. E ogni storia ha una sua unicità.
Segui il tuo lato interiore. Spesso il giudizio altrui è sopravvalutato (vedi, a volte, i giudizi scolastici) e può determinare scelte o scenari diametralmente opposti solo perché diamo importanza spropositata a quello che gli altri dicono e pensano di noi e del nostro operato. Il mondo accademico e imprenditoriale ci espone spesso a queste pressioni interiori. Non lasciarti mai influenzare da ciò che ti circonda. E segui la direzione che pensi ti possa completare e rendere felice.
Lavora su te stesso. Durante un periodo di transizione ti verrà la tentazione di mettere tutto in discussione e sentirai crescere i sensi di colpa. Non pensarci, elimina questi pensieri negativi e investi su te stesso. Studia, tieniti aggiornato, segui corsi formativi. Sii onesto nella rivalutazione dei tuoi comportamenti. Capendo cosa serve per completarti. E quando l’hai capito, agisci.
Equilibra sicurezza e umiltà. La sicurezza in noi stessi è una dote fondamentale che può permetterci di tutelarci e dare risalto al nostro valore professionale. Tuttavia la bilancia non deve pendere solo da un lato, ma essere equilibrata dalla consapevolezza che c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare. Anche un operatore che lavora in linea da anni può proporti degli stimoli o dei punti di vista che potresti non cogliere. Per cui non vergognarti mai di chiedere o di osservare gli altri. Sii umile.
Non avere paura nel cambiare un percorso. Passare da una zona di comfort all’ignoto genera da sempre ansia e timori. In più, cambiare direzione può scatenare la percezione di fallimento. La vita è piena di sorprese e di cambiamenti repentini degli scenari. Non c’è nulla di più sbagliato che farsi legare da catene emotive. Alla lunga potresti scoprire che proprio la dimensione aziendale è quella perfetta per esprimere al massimo le tue capacità.
Il titolo di studio è l’inizio, non la fine. Ogni tanto sorrido ripensando ai giorni delle mie lauree. Quando ritenevo inconsciamente che il percorso fosse finito e che tutto sarebbe stato “una conseguenza”. Nulla di più sbagliato! È da lì che comincia il vero percorso e non v’è nulla di garantito. Chi prende la patente non è immediatamente capace di condurre una vettura da corsa. Non lasciarti abbattere, ma sii consapevole di ciò.
Coltiva e fai fiorire il talento. Una delle cose che più mi rammarica in ambito professionale è percepire quell’inconsapevole cinismo nel costruire un sistema sulla necessità “della mia presenza”. Ritengo che una delle cose più appaganti per chi ha titoli e competenza sia quello di permettere la crescita del gruppo di lavoro che ha attorno. Comprendi quali siano i punti forti delle persone che lavorano con te. Motivale e permetti loro di brillare per il proprio talento. Mettili nelle condizioni di esperimersi al meglio, fornendo loro esempi positivi e costruttivi. Durante un incontro formativo effettuato in un corso della laurea magistrale ricordo ancora le parole che mi disse uno dei relatori: “Il bravo professionista non è quello che sa tutto, ma è quello capace di trasmettere ai suoi collaboratori il proprio know-how solamente ponendosi come esempio positivo da imitare”.