Perché il dottorato e come è stato?
Il mio desiderio è sempre stato quello di lavorare in università: poter fare ricerca, scrivere e insegnare le materie che più mi appassionavano è stato sempre il mio obiettivo. Sapevo che per diventare un’antropologa dopo la magistrale avrei dovuto continuare il mio percorso con il dottorato e cercavo un’opportunità per potermi finalmente confrontare con il mondo della ricerca che tanto mi appassionava.
Un po’ per motivi personali, un po’ perché mi era sempre piaciuta l’idea di andare a studiare all’estero, ho deciso di iscrivermi a un corso di dottorato in Antropologia alla Karl-Franzens-Universität di Graz, in Austria. Guardando indietro mi rendo conto di aver affrontato questa scelta senza aver ben chiare le sfide che presupponeva.
Ho fatto un dottorato senza borsa e, nonostante avessi lavorato per qualche mese prima di partire, mi sono dovuta presto confrontare con la necessità di mantenermi. Ho così iniziato a lavorare in un centro commerciale; facevo un lavoro faticoso e spesso dovevo svegliarmi prestissimo. Lavoravo 4 giorni a settimana e per questo motivo mi sono persa molte delle attività che il mio dipartimento organizzava, dovendo concentrare tutto nel poco tempo libero che mi rimaneva.
Se penso agli anni del mio dottorato rivedo un periodo di relativa solitudine dal punto di vista accademico. Inoltre, tutti i corsi e gli esami erano in tedesco, lingua che conoscevo, ma di certo non a livello universitario. Ho dovuto reimparare tutto da capo: a scrivere in un’altra lingua, a leggere e comprendere termini specialistici e in un certo senso ho dovuto anche imparare a pensare in modo diverso e più flessibile.
Ho scritto la mia tesi di dottorato in inglese, ma ho deciso di difenderla in tedesco. Col senno di poi devo dire che riuscirci è stata una grande soddisfazione, la chiusura di un percorso di cui non riuscivo bene a capire l’utilità nell’immediato, ma che mi ha dato forse la prima prova del fatto che quelli che sembrano ostacoli insormontabili, una volta superati, possono rappresentare un modo per conoscere sé stessi e confrontarsi con quelli che crediamo siano i nostri limiti. La mia tesi trattava dello sviluppo turistico a Lanzarote (un’isola delle Canarie) e ho avuto la possibilità di fare ricerca sul campo (nei periodi di ferie dal lavoro!). Ho capito che mi piaceva tantissimo e avrei potuto essere brava nel mio lavoro. Mi piaceva parlare con le persone, scoprire insieme a loro cose nuove, intraprendere con loro un percorso che portava a conoscere la realtà che ci circonda in modi diversi.
Alla fine del dottorato ho deciso di tornare in Italia: ho lasciato in Austria casa, affetti e amicizie. Il ritorno è stato difficile, mi sono dovuta porre per la prima volta la domanda “E ora cosa faccio?”. Fortunatamente ho vinto quasi subito il mio primo assegno di ricerca all’università di Bergamo: finalmente ero lì dove volevo essere e facevo quello che mi piaceva.
Le persone che mi erano vicine non capivano esattamente che lavoro facessi e io stessa non riuscivo bene a spiegarlo: la difficile comunicabilità del lavoro del ricercatore all’esterno dell’accademia è forse uno dei problemi maggiori. Il lavoro dell’antropologo, poi, in Italia è pressoché sconosciuto, quindi non ho mai avuto un profilo facilmente individuabile. Credo che ci siano persone che tutt’oggi pensano che io facessi la giornalista perché per semplificare dicevo sempre che facevo interviste.
Perché hai lasciato l'accademia?
Ho lasciato l’accademia per una serie di motivi. Il primo è che negli anni mi sono specializzata in un ambito, quello dello sviluppo turistico locale, che a mio parere è un argomento che funziona bene se trattato a cavallo tra più discipline. Non avevo modo (per limiti di tempo e di mobilità) di affrontarlo nel migliore dei modi secondo quelle che sono le metodologie proprie della disciplina antropologica (il lavoro sul campo in primis), quindi ho dovuto sviluppare una metodologia mista che mi permettesse di applicare le mie conoscenze in modo interdisciplinare.
Purtroppo per il sistema dei settori concorsuali non avere un profilo ben definito diventa un problema enorme. Alla fine dei quattro anni al GSSI seguivo un progetto che mi piaceva, con quelli che credo fossero dei buoni risultati. Pubblicavo tanto, andavo alle conferenze, ma ero diventata qualcosa a metà tra un’antropologa, una sociologa e una geografa. Questo rendeva la mia futura spendibilità in ambito accademico in Italia molto complicata. Se avessi voluto continuare avrei dovuto fare una vera e propria operazione di rebranding personale! Vivevo questo limite come una forzatura inutile. Non voglio dire che le specificità delle varie discipline non siano importanti, anzi, tuttavia trovo che se l’interdisciplinarietà diventa un problema il rischio è di perdere un valore importante. Di questo sono ancora più convinta ora che faccio tutt’altro e che lavoro in un’azienda dove sapersi sporcare le mani con cose che vanno oltre alla propria diretta competenza è tra le cose che permette di fare vera innovazione scientifica.
Un altro motivo per cui ho lasciato l’accademia è che iniziavo a non sentire più la spinta necessaria a scrivere e pubblicare articoli. Iniziavo a chiedermi sempre più spesso quale fosse la portata di quello che scrivevo per il “mondo reale”… davvero tutto questo lavoro era solamente funzionale all’ottenimento della fantomatica abilitazione? Stavo sempre più spesso scambiando il fine con il mezzo, non capivo più bene perché facessi quello che facevo, e quindi ogni nuovo articolo diventava uno sforzo incredibile.
In fondo credo di essere semplicemente cambiata. Avrei potuto continuare in accademia, ma sentivo che la Giulia che aveva iniziato il dottorato nel 2009 non era la stessa che nel 2019 si poneva queste domande.
Com'è andata la fase di transizione?
Il modo più onesto per descrivere la mia transizione dall’accademia all’azienda è dire che è stata un’elaborazione del lutto iniziata a settembre 2018 e durata circa un anno. Dentro di me facevo già delle considerazioni in merito al mio desiderio o meno di continuare e allo stesso tempo vedevo gli amici e i colleghi andare avanti con nuovi contratti o trasferirsi in altre università.
La domanda che mi ponevo era sempre la stessa: fino a che punto sono disposta a spingermi? Avevo fatto di tutto per questo lavoro, ma sapevo bene che non sarei stata disposta a fare “qualsiasi cosa” per tenermelo. Ovvero, molto probabilmente non sarei andata di nuovo all’estero, né avrei voluto occuparmi di un progetto che non mi stimolava intellettualmente.
In un certo senso questa lunga transizione è stata una benedizione: mi ha dato la possibilità di scegliere. Se avessi centrato subito il primo concorso in un’altra università probabilmente sarei andata avanti senza problemi e ne sarei stata ugualmente felice. Così invece sono stata costretta a fermarmi e a chiedermi “Che cosa voglio fare?”. È una domanda che non mi ero fatta per anni, ero andata dritta con l’obiettivo davanti a me, al punto che quasi non lo vedevo più.
In questo anno di “lutto” ci sono state due cose che mi hanno aiutato e una in realtà è stato un vero colpo di testa. La prima è stata iniziare a leggere, prima per caso, poi in modo sempre meno causale, articoli e libri sul fallimento. Siamo portati a evitare il fallimento in ogni modo, io stessa cercavo sempre di vincere ogni piccola sfida con me stessa pensando che così avrei saputo di che pasta ero fatta. Invece più leggevo e più mi rendevo conto che è nel fallimento che ci si confronta con sé stessi.
Così un bel giorno ho guardato il mio fallimento negli occhi e l'ho abbracciato: non sarei mai diventata un professore ordinario? Bene, in ogni caso nessuno mi avrebbe mai tolto quello che ero diventata nel tentativo di arrivarci. E va bene così, anche se non c’è scritto “antropologa” nella mia firma aziendale, nulla mi toglie il sapere di esserlo.
Prima di arrivare a questo però, ho fatto un’altra cosa: ho sentito il bisogno di guardare tutto da lontano, un po’ come quando scrivi sulla lavagna e hai bisogno di fare un passo indietro per vedere cosa stai scrivendo davvero. Ho deciso nel giro di tre giorni di andare in Giappone e di girarlo da sola per dieci giorni. Non riuscivo a pensare a nessun altro modo per vedere le cose da un’altra prospettiva se non quello di farlo fisicamente. Una volta lì mi sono accorta che tendevo a ripetere una specie di rituale: appena incrociavo nel mio gironzolare un grattacielo sul quale era possibile salire, andavo fino all’ultimo piano e guardavo la città dall’alto. Da lassù vedevo il mondo andare avanti: vedevo persone, macchine, treni, aerei ed era tutto minuscolo. Lì mi sono resa conto che il mio enorme e gigantesco problema aveva ben poca influenza sulla vita dell’umanità che mi circondava… e ho ridimensionato tutto. Tutto quello che aveva influenzato ogni mia scelta negli ultimi dieci anni era diventato piccolo come tutto quello che vedevo sotto di me.
Tornata a casa, con la testardaggine che mi contraddistingue, ho iniziato a partecipare a concorsi in università di ogni continente. Volevo fare la prova del nove! Quando ho passato le selezioni per una posizione in UK – dove avevo sempre voluto lavorare – mi sono resa conto che quel posto semplicemente non lo volevo.
A quel punto ho dovuto cercare lavoro “per davvero”. Sono partita, credo come tutti, mandando CV un po’ a casaccio; nel frattempo avevo seguito due webinar di Chiara Veneziani di Find Your Doctor che mi hanno aiutata molto, soprattutto a capire che non dovevo “vergognarmi” di avere un dottorato – tante volte avevo pensato che sarebbe forse stato più facile se lo avessi eliminato dal CV – ma anzi, era proprio su quello che dovevo puntare. Lo dico sinceramente: ho trovato lavoro quando ho deciso di fidarmi e di mettere in discussione tutto quello che pensavo di sapere su come si cerca un lavoro e ho così affrontato la ricerca diversamente rispetto a come avevo fatto fino a quel momento.
Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?
Credo che la cosa più importante e più utile che ho imparato durante il dottorato sia la capacità di guardare le cose simultaneamente da vicino e da lontano. Ovvero mi sento in grado di affrontare un problema scomponendolo nei suoi elementi costitutivi, analizzandoli separatamente. La prima domanda che mi pongo di fronte a una cosa nuova è “Com’è fatta? Quali sono i punti fondamentali?” e una volta che li ho individuati mi metto a studiare.
Ci sono tantissime cose della vita aziendale che non sapevo, e ancora non so, quindi appena mi rendo conto che mi manca qualche pezzetto lo affronto come se fosse una mia piccola domanda di ricerca. Una volta che mi sembra di aver tutti gli elementi che mi servono per comprendere ciò che ho davanti allora faccio un passo indietro e cerco di rimettere insieme tutto, guardo il problema nella sua interezza e ragiono su come affrontare questo nuovo task, su come trovare una soluzione o su come inserire questa nuova attività nel flusso di lavoro. Uso quindi un metodo abbastanza strutturato per quasi tutto quello che devo fare, e credo che questo sia il valore aggiunto dell’aver fatto un dottorato. Il famoso problem solving difficilmente cade dal cielo, credo che la vera chiave sia il “problem detecting”, e chi meglio di un ricercatore sa trovare problemi anche dove sembra che non ce ne siano!
Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?
Non credo di avere delle cose di cui pentirmi nel vero senso della parola, ci sono però un paio di cose che col senno di poi avrei voluto aver affrontato in modo diverso. La prima è che credevo di avere un piano (lavorare in università!) che all’inizio sembrava precisissimo, ma in realtà si è rivelato essere molto complesso. Troppe volte forse mi sono lasciata trasportare dagli eventi, complice anche il fatto che il passaggio tra il dottorato e i vari post-doc è sempre stato abbastanza veloce. Non mi sono quindi mai fermata veramente a pensare se stessi facendo la scelta giusta o se il tema di ricerca fosse nelle mie corde… Sono andata avanti un po’ per inerzia pensando che contasse solo l’obiettivo finale e facendo così mi sono infilata in un percorso tortuoso.
La seconda cosa è che ho lavorato quasi durante tutto il percorso di dottorato e quindi non me lo sono goduto veramente. Avrei potuto sicuramente scrivere una tesi migliore, andare più a fondo con la ricerca, prendermi più tempo… Ma del resto, come si dice “a good PhD thesis is a finished PhD thesis”, giusto?
Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?
Un consiglio che mi sento di poter dare è quello di affrontare la transizione dall’università al mondo aziendale come affrontereste il passaggio a un nuovo e diverso ambito di ricerca. Non sapete che direzione prendere? Studiate tutte le opzioni, fate schemi, prendete appunti. Studiate anche voi stessi, ponetevi delle domande. Cosa sapete fare? Cosa potete dare a un’azienda? In che ambito vorreste lavorare? Per cosa vi sentireste più portati? Quando trovate un annuncio che sembra adatto a voi, analizzatelo, guardate fuori e dentro la “scatola”, giratele intorno, osservatela da ogni angolazione e poi saltateci dentro. In fondo sono anni che vi allenate a fare proprio questo! Come è capitato a me, forse all’inizio sbaglierete e tornerà a fare capolino la sensazione di fallimento, ma compiere la transizione vuole dire proprio questo: trovare anche attraverso gli errori gli elementi in comune tra il proprio profilo accademico e le competenze ricercate dalle aziende, sulla base dei quali costruire il proprio futuro.
Oltre a questo, avendo visto in questi mesi molti CV di ricercatori, mi sento di dare anche due consigli più pratici: il primo è puntate molto sulla lettera di presentazione, anche se non è espressamente richiesta. È lì che potete fare la differenza e far capire al selezionatore perché l’azienda ha bisogno della vostra “testa”. Ho letto lettere che sembravano dei research proposal, probabilmente scritte per qualche concorso all’università, ma poco adatte all’ambito aziendale. Puntate invece a spiegare perché ritenete di essere la persona giusta, e soprattutto cosa pensate di poter portare voi all’azienda: capacità, conoscenza, metodo di lavoro. È anche poco utile scrivere cose come “mi interesserebbe molto lavorare in questo campo per accrescere le mie conoscenze”, all’azienda interessa molto di più sapere qual è il bagaglio di conoscenze che vi portate dietro!
Il secondo consiglio è di tenere in considerazione che un’azienda ha bisogno di molte figure diverse per poter funzionare bene. Non è detto che se la specializzazione principale è quella chimica, informatica, farmaceutica, ecc. non siano necessarie altre figure di collegamento tra le diverse attività; non abbiate quindi paura di candidarvi anche se il vostro profilo non aderisce al 100% alle competenze richieste. Se vi proponete nel modo giusto l’azienda potrebbe addirittura creare una posizione appositamente per voi! Se vi sembra poco probabile pensate che Ventiseidieci, l’azienda per cui lavoro ora, ha progetti R&S nel campo delle nanotecnologie, bioinformatica e intelligenza artificiale… tutte cose di cui avevo solo remotamente sentito parlare fino a poco tempo fa. Ve la sareste mai immaginata un’antropologa in una azienda così?