STORIE ANFIBIE

 

Una rubrica di racconti personali sulla transizione dall'accademia all'impresa, per sfatare il mito che il PhD sia un pesce buono solo per nuotare nell'habitat universitario: i dottori di ricerca sono anfibi e possono respirare fuori, sulla terraferma del mondo aziendale, proprio come respiravano dentro le acque della ricerca.

 

 

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18
Maggio

Storie Anfibie

CHIARA VENEZIANI | Scienze Psicologiche

18 Maggio 2020

HR Manager di Find Your Doctor

Laureata in Psicologia Clinica, Chiara si è dottorata in Scienze Psicologiche presso l’Università di Padova. Si è occupata soprattutto dello studio degli antecedenti e dei correlati di benessere lavorativo, individuale e relazionale, di motivazione, pregiudizio, consapevolezza, empatia, intelligenza emotiva e comportamento pro-sociale. Dopo un assegno di ricerca durato due anni ha lasciato il mondo accademico e dal 2018 ricopre il ruolo di HR Manager per Find Your Doctor e per il Consorzio per il Trasferimento Tecnologico C2T, promotore della startup.

 

Perché il dottorato e come è stato?

Nonostante avessi preso la laurea in Psicologia Clinica, l’idea di ascoltare pazienti non mi appassionava. Ciò che invece mi piaceva era la Psicologia Sociale, che analizza i processi psicologici e i comportamenti dell’individuo in quanto appartenente a gruppi. A piacermi era soprattutto la metodologia sperimentale che vi è dietro: uno psicologo sociale crea cioè manipolazioni di variabili per trovarne gli effetti su altre, inventandosi sempre strategie per nascondere il più possibile a chi partecipa allo studio qual è il processo psicologico sotto indagine. Mi è inoltre sempre piaciuto insegnare, avere il contatto con gli studenti e sentivo di poter portare miglioramento ad alcune dinamiche. Il dottorato sembrava quindi la strada giusta per me.
Conoscevo bene i problemi di precariato dell’università italiana ed era questo il più grande deterrente che avevo nell’intraprendere il percorso di dottorato. Allo stesso modo però sentivo dentro di me che c’era qualcosa di sbagliato nel non provare a seguire una strada che sentivo così maledettamente mia solo per paura di non riuscire a valorizzarla in seguito. Sono sempre stata inoltre una persona un po’ fatalista, convinta cioè che se una strada non è quella giusta qualche segnale te lo farà capire. Così, siccome nella mia università non c’erano corsi di dottorato e dovevo provarlo da esterna in qualche altra università, pensai come gli antichi greci: ci avrei provato tre volte e se non fossi riuscita a entrare avrei cambiato piani. E invece sono entrata a Padova.
Il primo periodo non è stato proprio facilissimo, innanzitutto perché ogni università ha logiche, abitudini, dinamiche e regole non scritte diverse tra loro e per questo durante il primo periodo a Padova ho provocato per inesperienza qualche piccolo incidentino diplomatico. Non avevo inoltre inizialmente un gruppo di ricerca di riferimento visto che avevo vinto il concorso “da esterna”. Continuavo poi a collaborare anche con l’università in cui mi ero laureata e per motivi familiari non potevo trasferirmi a Padova; questo si tradusse nel fatto che dividevo la mia settimana, e spesso addirittura la giornata, tra Milano, Padova e la mia città natale, Bergamo. Praticamente mi dividevo tra due università tra loro molto diverse, tra due professori, con caratteri, idee, non solo scientifiche, e approcci agli antipodi tra loro, tra i miei studi di tesi e gli studi per le tesi degli altri, tra i corsi che facevo come studente e i corsi che facevo come insegnante, tra le nuove logiche e quelle vecchie. Il tutto spostandomi in treno, con una media di circa sei ore al giorno di viaggio.
Sono almeno stata davvero fortunata con il supervisor che mi era stato assegnato: era infatti una persona corretta, giusta, etica e ora so che non posso lavorare per un “capo” che non abbia queste caratteristiche.
Il primo anno di dottorato mi è volato in un batter d’occhio e ripensandoci mi accorgo di come sia stato in realtà assolutamente l’anno più formativo della mia vita, almeno fino a che non sono entrata in azienda.
Ho imparato tantissimo: innanzitutto a saper lavorare in contemporanea su progetti e ricerche anche completamente diverse tra loro, a organizzare il mio lavoro in modo da essere efficiente su tutti i fronti, senza bucare scadenze o dimenticare qualcosa, ma anticipando e risolvendo problemi in atto anche su lavori diversi. Ho imparato a lavorare con e sotto persone completamente diverse tra loro, ad adattarmi a contesti vari e opposti, a sviluppare capacità di organizzazione anche del lavoro altrui, a fare attività di mediazione e diplomazia tra persone con prospettive completamente diverse. Ho imparato a parare i colpi che possono provenire da alcune persone, a spingere il mio corpo e la mia mente oltre i loro limiti fisici, a fare quello che altri mi dicevano non potevo riuscire a fare. Esempio di questo erano anche le analisi statistiche che facevo: non sono mai stata una persona brava con i numeri, ho sempre avuto difficoltà nella matematica, i miei talenti sono sempre stati quasi opposti. Per questo la statistica era per me inizialmente un enorme scoglio e poi invece studiando, provando e riprovando riuscivo a fare anche analisi davvero complesse, spostando ogni volta le mie capacità un po' più in là. Questo mi diede anche una maggior sicurezza in me stessa: sapevo che stavo conducendo una vita che non sarebbe stata ammissibile per la maggior parte delle persone, ma la qualità del mio lavoro non ne risentiva. Così, anche quando le difficoltà o la stanchezza sembravano prendere il sopravvento, mi ripetevo: “Sei una dottoranda, è un privilegio. Essere dottorandi significa combattere, combattere significa fare sacrifici per qualcosa di più importante. Testa alta e fuori gli attributi”. Questa sicurezza, unita a una maggiore maturità ed esperienza di certe dinamiche mi consentì anche di interrompere le collaborazioni che non mi portavano da nessuna parte, di scorgere manipolazioni in atto e di fermarle.
Ultimo ma non per ultimo, passando la maggior parte del tempo in treno, ho imparato anche a lavorare in qualsiasi contesto, sapendo sfruttare ogni attimo per “fare qualcosa”, ottimizzando sempre al meglio i tempi.
Il secondo e il terzo anno di dottorato sono stati meno faticosi fisicamente, avendo lasciato almeno la collaborazione a Milano e potendo così ridurre i viaggi solo tra Bergamo e Padova. Sono stati anni altamente proficui e formativi. In certi momenti non mi sembrava neppure vero di essere pagata per fare ciò che più mi piaceva, ovvero fare ricerca e formazione, tanto che, finito il dottorato pensai che se non era perché ne puoi fare solo uno retribuito con borsa, di lavoro avrei potuto fare la dottoranda seriale.

Perché hai lasciato l'accademia?

Ricordo che, vinto l’assegno di postdoc, avevo la sensazione di essere esattamente dove dovevo essere. Non so dire con esattezza cosa successe poi in quei due anni di assegno, ma i miei bisogni cominciarono a cambiare e le mie convinzioni a vacillare. Innanzitutto realizzai pian piano che non stavo facendo nulla di davvero utile alla società: la pressione che abbiamo a pubblicare stava ormai sempre più infettando la mia ricerca, che non aveva più quella dinamica iniziale improntata a scoprire nuovi metodi e nuove strade per portare miglioramenti. E di fronte a un articolo pubblicato non provavo nemmeno più un po' di emozione. Accanto a queste considerazioni, anche il mio rapporto con l’università si stava incrinando: anche se conservavo un ottimo rapporto con il mio supervisor e sapevo che lui era diverso da altri, cominciavo a sentirmi in una gabbia, non libera di poter volare dove volevo. A questo si erano aggiunte anche questioni laterali: continuavo ad avere la necessità di tornare a Bergamo il più spesso possibile e l’idea di avere sempre la valigia in mano cominciava a pesarmi davvero molto. E poi c’era l’amore, che a 30 anni comincia a essere diverso che a 25, e che ti porta quindi ad avere voglia di fare programmi, di avere stabilità. Infine, ero finita per abitare a Padova in un postaccio. Magari a 25 anni neanche lo noti, ma a 30 cominci ad avere voglia di una casa tua, possibilmente senza insetti blattoidei del vicino dal discutibile senso di pulizia.
In quei mesi che mi stavano accompagnando alla fine del mio assegno di ricerca sopportavo sempre men della vita “ai tempi del precariato”. E così sono arrivata a farmi una domanda: quella strada che avevo scelto ormai più di 5 anni prima era ancora la mia strada? Ero cambiata così tanto in quegli anni, che non ci sarebbe stato nulla di male ad ammettere che quello non era più il mio sogno. Tradivo me stessa e i sacrifici fatti se abbandonavo quella strada, o li avrei traditi percorrendo in automatico una strada scelta in passato che non portava però più alla giusta meta?
Accanto a questi dubbi che si presentavano sempre più frequentemente alla mia porta, c’erano però sensi di colpa, verso per esempio il mio supervisor che temevo si sarebbe sentito abbandonato, verso i dottorandi che con lui seguivo, verso le mie colleghe . Mi sentivo in colpa addirittura verso i miei progetti che avrei dovuto mollare. E poi c’era soprattutto quel timore: ma io che mi sono occupata solo di ricerca, in temi di nicchia tra l’altro, cosa mai potrei fare fuori? A chi potrebbe interessare una psicologa clinica, passata al sociale che si occupa di pregiudizio, benessere e consapevolezza? Non mi sentivo né carne né pesce, ma nemmeno un alimento vegano. Divisa tra la paura di spiccare il volo e il senso di ingabbiamento che provavo decisi ancora una volta di essere fatalista: avrei cominciato a mandare in giro i CV e se avessi trovato qualcosa di interessante avrei avuto la forza di tagliare quel cordone che da un lato mi dava sicurezza e dall’altro però mi legava a un posto dove non volevo più stare. E così cominciò uno spasmodico invio di CV.


Com'è andata la fase di transizione?

A pochi mesi dalla scadenza del mio assegno, passavo la notte a mandare CV, inizialmente a casaccio. Ricordo che mandai il CV persino a un’azienda che produce ascensori. Si sa mai che volessero migliorare il benessere di chi va su e giù.
Tra le varie competenze che pensavo di aver appreso in dottorato, decisi a un certo punto di puntare su due: da un lato il project management dall’altro le analisi statistiche. Mi rispose così un’azienda bergamasca specializzata in ricerche di mercato, a 20 minuti da casa, che mi offrì una posizione come PM per le ricerche quantitative. Mancavano quattro giorni alla fine del mio assegno e io avevo trovato un posto. A tempo indeterminato. Vicino a casa. E apparentemente avrei anche fatto qualcosa di inerente alle mie competenze e che avrebbe quindi potuto piacermi. Avrei avuto uno stipendio vero, contributi e persino tasse da pagare. Senza riflettere neanche un secondo, accettai, salutai in fretta e furia il mio professore, buttai in macchina le mie cose, lasciando invece il resto nell’ufficio di Padova, e letteralmente scappai da quella che era stata la mia vita negli ultimi cinque anni. Ricordo che avevo un’adrenalina, un’energia e un entusiasmo tali che non mi sfiorò nemmeno per un istante il dubbio che in realtà io stessi passando dalla padella alla brace.
Al mattino ero a Padova, al pomeriggio cominciai a lavorare in azienda a Bergamo. Le prime due settimane furono un casino, ma anche una figata. Ci si immagina che le aziende funzionino, siano ben organizzate e vi siano al loro interno persone competenti. Mi accorsi subito che non era così, ma non mi importava perché quello che mi piaceva era che al venerdì, se ripensavo a come ero il lunedì precedente, mi accorgevo non solo che avevo prodotto tanto ma che avevo anche imparato tanto, cosa ormai in accademia mi mancava.
L’università però mi aveva anche insegnato a fiutare quando le cose non quadravano e così, passato l’entusiasmo iniziale, cominciai a vedere le non eticità di quel posto. In poche settimane andava sempre peggio e io passavo anche quattordici ore al giorno a sentirmi una scimmia operaia in mano a qualcuno che mi usava per fare della “non buona ricerca”. In poco tempo mi ritrovai a sentirmi ancora una volta in gabbia, ma questa volta era una gabbia diversa: non dorata e luminosa come quella accademica, ma fredda e buia.
La cosa peggiore fu che quando cominciai a parlarne alle persone a me più vicine, a parte il caso eccezionale del mio compagno e di mia mamma, cominciarono a sbucare tutti i pregiudizi verso noi ricercatori. Le persone con cui parlavo dei miei dubbi mi giudicavano infatti facilmente, dicendo che si vedeva che ero sempre stata in università, che non sapevo come girava il mondo, che dovevo svegliarmi perché non ero più nelle torri d’avorio dell’accademia, e che era il caso che imparassi a lavorare davvero.
Avevano ragione? Effettivamente come lasciare un posto a tempo indeterminato tanto desiderato dopo solo pochi mesi? Ero davvero non in grado di reggere la pressione dell’azienda? Questi pensieri mi tormentavano e quella sicurezza che mi ero costruita negli anni di dottorato si era ormai sgretolata sotto il peso del senso di fallimento e inadeguatezza. Forse ero davvero inadatta. Intanto però tutto il mio corpo si ribellava, non era possibile, non avevo fatto tutti quegli sforzi per finire a stare così, ci doveva essere un’altra soluzione. E così un giorno, preso coraggio, mi sono licenziata.
Apriti cielo. Non avete idea dei pregiudizi contro noi PhD sentiti in quell’occasione: colleghi, amici, persino parenti mi dicevano che non sappiamo niente di come va il mondo, che non sappiamo accontentarci e che non sappiamo cosa significhi lavorare sodo.
Sapevo che, se avessi insistito, erano passati così pochi mesi che avrei potuto tornare all’università di Padova, dove c’erano ancora le mie cose, ma tornare indietro non era la soluzione. Guardare avanti mi faceva paura perché ero convinta che siccome un’azienda mi aveva punto, lo avrebbero fatto anche tutte le altre.
Divisa così tra i sentimenti di colpa, i pregiudizi, le paure che quei pregiudizi fossero fondati e che quindi non fossi pronta per una vita lavorativa, cominciai a interrogarmi bene su cosa mi piacesse fare, su cosa non mi piaceva fare, su cosa mi portava a un’ansia produttiva, e cosa a stress, a quali erano i miei punti di forza, quali i limiti che potevo superare, e quali i limiti che con tutta la buona volontà sapevo non avrei superato. Mi resi così conto, rianalizzando le mie esperienze, che c’era una cosa che non solo mi piaceva fare ma che mi veniva anche molto bene: la comprensione delle persone, il saperle valorizzare e motivare, il saper comprendere competenze, aree di forza, limiti e aspirazioni. E poi in fondo in tutta la mia vita, non solo professionale, ciò che mi era sempre riuscito meglio era preoccuparmi delle persone, metterle nelle condizioni perché possano stare il meglio possibile, fiutare in anticipo se hanno difficoltà e provare a risolverle. Cominciai così a pensare a quale professione potesse consentirmi di sviluppare tutte queste mie caratteristich, e fu in quel momento che vidi l’annuncio di Find Your Doctor che cercava un HR Manager. Sentii subito che poteva essere finalmente il mio posto. Mi presi così due giorni per ragionare su come le mie esperienze precedenti potevano rispondere ai bisogni di FYD e inviai la cover letter e il CV. E ora eccomi qui.


Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?

Il dottorato mi ha plasmata, averlo fatto è così parte di me, che non riesco a immaginarmi senza. Sono cresciuta tantissimo sotto tanti punti di vista. Per questo trovo difficile rispondere a questa domanda perché credo di usare ciò che ho imparato durante il dottorato ogni singolo istante in cui lavoro in azienda, senza neanche accorgermene. Persino a distanza ormai di anni dalla fine del mio postdoc, una delle competenze apprese allora mi ha fatto venire la giusta intuizione per risolvere un problema in azienda.
Credo però che la cosa più importante che mi è rimasta sia un mindset fatto da un miscuglio di umiltà, spirito di sacrificio e voglia di migliorarsi sempre un po'. Questo mindset serve per avere la capacità di accettare di fermarsi, ripartire e ricominciare da capo, cogliendo ogni occasione per imparare da chiunque e da qualsiasi situazione, interrogandosi sinceramente sui propri punti di forza e limiti e cercando di spostare quei limiti sempre un po' più in là, sapendo che non si conquista nulla senza fatica, senza sacrificio. Il dottorato è solo una parte di questi sacrifici e per dare loro valore bisogna guardare alla strada davanti con lo stesso entusiasmo con cui si fanno i primi passi di un viaggio.


Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?

I consigli più pratici li diamo nei webinar, ma voglio dare due consigli più filosofici che penso siano molto importanti e che possono essere visti in realtà come due facce della stessa medaglia.
Il primo è non abbiate paura a pensare di andarvene dall’accademia: non tradirete voi stessi, non tradirete il supervisor e i vostri progetti vedranno la luce anche senza e dopo di voi. E se lasciate aperta questa possibilità senza viverla come un fallimento o un ripiego, potreste scoprire che esistono realtà nelle quali possiamo dare valore a ciò che abbiamo imparato. La verità è che se lasciamo andare le catene, emotive e non, che ci trattengono, potremmo scoprire che è proprio in azienda che possiamo fare la differenza. Insomma, per dirla come la direbbe Vasco ricordiamoci sempre che “Siamo liberi. Liberi di sognare. Liberi di sbagliare. Ma liberi anche di ricominciare!”. Rispetto anche solo a dieci anni fa le aziende sono tra l’altro anche molto più pronte ad avere al proprio interno figure come le nostre. Il momento è quindi proprio quello giusto!
Il secondo è di avere l’umiltà per approcciare il nuovo contesto con la consapevolezza che nonostante possiamo fare la differenza abbiamo in realtà ancora molto da imparare e che ci si deve sempre rimboccare le maniche. Il dottorato non è, come purtroppo vedo considerare da alcuni dei dottori di ricerca che colloquiamo – quelli che di solito che mi dicono “ma perché non vengo mai scelt* dalle aziende a cui mando il CV” – la fine di un percorso, è l’inizio! Non si è arrivati diventando dottori di ricerca, si ha semplicemente più competenze in una valigia che ci accompagna lungo un viaggio in cui ancora tanta, per fortuna, è la strada da fare.